Cambio di pellet L’Unione europea ha un problema con le biomasse

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Christian Morasso
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La transizione verso un sistema produttivo che rispetti davvero la sostenibilità ambientale non sarà una passeggiata. Non potrà esserlo. E soprattutto non potrà essere programmata senza prevedere un costante aggiornamento nel tempo.

Quello che sta accadendo in tutto il mondo, e in particolare nell’Unione europea, con le biomasse è abbastanza indicativo delle difficoltà che tutti i Paesi incontreranno nella loro rivoluzione green. Ormai da tempo, in tutta Europa le masse organiche sono considerate e adoperate come fonte di energia pulita. Prima della pandemia, la biomassa solida era la principale fonte energetica rinnovabile utilizzata nell’Unione europea nel settore termico e nel contesto della corsa globale alle rinnovabili.

 

Solo che la stessa definizione di biomassa, così come quella di fonte di energia pulita o green, potrebbe essere messa in discussione, o quanto meno sfumata leggermente. In un articolo pubblicato di recente, il Financial Times individua sotto l’etichetta biomasse non solo fonti come i rifiuti organici e gli scarti ma anche vegetali di ben diversa fattura: i combustibili da biomassa includono pellet, rifiuti organici e colture coltivate per l’energia. «Queste producono circa la metà dell’energia rinnovabile mondiale e il 60 per cento di quella dell’Unione europea e sono trattate come fonti a emissioni zero se vengono soddisfatte determinate condizioni di sostenibilità», si legge nell’articolo.

Il problema, però, è nella produzione di questa biomassa, a partire dal pellet: le risorse impiegate dai produttori di pellet rendono tutto più controverso. «Il fatto che l’Unione europea, per raggiungere i target di decarbonizzazione, abbia incluso anche il pellet prodotto con la legna degli alberi tra le biomasse crea un sostanziale cortocircuito, perché l’impatto di ogni singola pianta sull’ambiente passa sia per la sua capacità di assorbire anidride carbonica sia per il suo ruolo nell’ecosistema di riferimento», scrive il quotidiano britannico.

La protesta che viene mossa a Bruxelles è che l’Unione – forzando il concetto con un’espressione forte – brucia le foreste come combustibile bio: lo scorso maggio una protesta di alcune associazioni ambientaliste alle porte dell’Europarlamento chiedeva a Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo del Green Deal europeo, di togliere il pellet dall’elenco delle fonti energetiche classificate in Europa come rinnovabili.

«Bruxelles prevede di impedire che alcune forme di energia a legna vengano conteggiate per gli obiettivi di energia verde del blocco. Gli attivisti affermano che i cambiamenti devono andare molto oltre, escludendo del tutto la biomassa forestale dalla lista delle energie rinnovabili», scrive il Financial Times. Ma per molti Paesi questi combustibili hanno un ruolo cruciale, nel senso che senza questi sarebbe impossibile raggiungere gli obiettivi climatici previsti dall’Unione europea.

«Se non potessero fare molto affidamento sulla biomassa legnosa molti Stati membri troverebbero enormi difficoltà a rispettare i loro impegni futuri, che si tratti di riduzione delle emissioni o impegni di energia rinnovabile», ha detto al Financial Times Jorgen Henningsen, ex direttore della Commissione europea responsabile per il cambiamento climatico.

Lo stesso Timmermans ha affermato che senza la biomassa l’Unione europea non sarebbe in grado di raggiungere i suoi obiettivi di consumo di energia pulita. «Abbiamo bisogno di biomassa nel mix energetico, ma abbiamo bisogno della giusta biomassa: odio le immagini di intere foreste che vengono abbattute per essere messe in un inceneritore», ha detto al sito web Euractiv a maggio.

L’Unione offre diversi tipi di finanziamenti per l’utilizzo di energie rinnovabili e per qualsiasi cosa possa aiutare i singoli Stati a diventare un po’ più sostenibili. Nel 2019 oltre 10 miliardi di euro sono stati spesi dall’Ue per sussidi alle biomasse, che in parte hanno contribuito a finanziare l’importazione di pellet vegetali da Stati Uniti, Vietnam e Canada, che ne sono i primi esportatori su scala globale.

Il mercato multimiliardario del pellet è decollato nel 2009, dopo che l’Unione ha classificato la biomassa, all’epoca poco utilizzata, come fonte di energia rinnovabile al pari del solare e dell’eolico.

Intanto, l’industria del settore insiste sul fatto che la crescente domanda di questi piccoli trucioli cilindrici possa essere soddisfatta in modo sostenibile e che la biomassa prodotta in modo responsabile sia a zero emissioni di carbonio poiché le emissioni generate dalla combustione dei pellet vengono risucchiate dagli alberi che ricrescono.

«Ma c’è una discussione di vecchia data tra scienziati, attivisti e industria sul fatto che la biomassa sia a zero emissioni di carbonio. A febbraio, più di 500 scienziati hanno scritto ai presidenti della Commissione europea e del Consiglio europeo, esortandoli a non distruggere la biodiversità mondiale passando dalla combustione di combustibili fossili alla combustione di alberi. E a porre fine ai sussidi e ad altri incentivi per la combustione del legno», scrive il Financial Times.

Tagliare alberi, spedirli in tutto il mondo via nave e bruciare la legna per produrre energia non sembra una filiera poi così verde.

C’è poi un altro frammento della questione a non piacere a scienziati e critici. I report delle Nazioni Unite indicano le emissioni da biomassa dei singoli Stati nel settore “land” – che include agricoltura, foreste, e altri usi del terreno – anziché in quello energetico. In questo modo le nazioni importatrici possono misurare emissioni interne inferiori in termini di consumo energetico. Perché, spiega il Financial Times, «anche se diversi regolamenti dovrebbero dissuadere i Paesi produttori dall’eccessivo disboscamento, contare con precisione le emissioni di quel settore è notoriamente difficile: il livello di accuratezza e trasparenza con cui i diversi Paesi misurano e riportano le emissioni di uso del suolo varia, così il rischio è importare biomassa che non è stata prodotta in modo sostenibile, o le cui emissioni derivanti dalla raccolta non sono state misurate con precisione».

Il paradosso è un mondo che corre, con programmi e accordi internazionali, verso la riduzione totale di emissioni. Poi però fa un uso sconfinato e inopinato della biomassa.

«L’ultimo rapporto di decarbonizzazione dell’Aie stima che la quantità di terreno dedicato alla produzione di bioenergia potrebbe aumentare da 330 milioni di ettari nel 2020 a 410 milioni nel 2050. Ma il modo in cui viene utilizzato il carburante può cambiare. Alcune strategie per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero prevedono di accoppiare la biomassa con la nascente tecnologia di cattura e stoccaggio del carbonio, che secondo alcuni sostenitori di queste proposta genererà “emissioni negative”, rimuovendo di fatto il carbonio dall’atmosfera», scrive il Financial Times.

Adesso ci saranno appuntamenti importanti. Già il prossimo 14 luglio verranno definite le linee guida dei cosiddetti dazi verdi dell’Unione europea. Ma il tema biomasse resterà acceso su tutti i fronti, coinvolgerà l’intero sistema economico-produttivo e riguarderà tutti i Paesi e gli attori in campo, tutti coloro oggi presenti nella filiera.

 

 

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GIUSEPPE Galimberti
Uno spunto: alcune norme obbligano le centrali a biomassa ad usare biomassa vergine da bosco reiterando la problematica del "cortocircuito" citata nell'articolo, evitando l'uso di scarto da prima trasformazione che usando scarti di lavorazione, non genera nuovi abbattimenti per la produzione di biomassa evitando il "cortocircuito"